Deglobalizzazione o nuova globalizzazione?

Scenari all’orizzonte

Deglobalizzazione o nuova globalizzazione?

La globalizzazione, per come la conosciamo, è destinata a cambiare. Fattori ciclici e strutturali, insieme alla crisi finanziaria globale, sono alla base un profondo mutamento del sistema di interconnessioni economico-produttive, finanziarie e politico-istituzionali.

A partire dal secondo dopoguerra il mondo ha assistito a un aumento esponenziale della globalizzazione, ovvero all’aumento dei flussi commerciali e finanziari tra i Paesi del mondo. Questo processo ha portato a una maggiore efficienza e competitività dei processi produttivi, una maggiore specializzazione dei Paesi in determinati settori, e una maggiore diversificazione delle opzioni di consumo. L’organizzazione sviluppatasi nel corso degli anni si è caratterizzata per una straordinaria dispersione geografica delle catene di valore con il generale consenso della cosiddetta produzione “a richiesta” (just in time) al fine di ridurre le scorte e i costi di stoccaggio. Il fenomeno della globalizzazione si è intensificato, in particolar modo, negli ultimi decenni del ventesimo secolo. In questo nuovo scenario, sempre più interconnesso, le imprese hanno superato i confini nazionali, avvalendosi dei mercati esteri per commercializzare beni e capitali. Hanno, altresì, delocalizzato la produzione in Paesi con fattori produttivi più favorevoli e al contempo generato catene di produzione globale. Il vantaggio di tutto ciò è stato che in poco più di tre decenni milioni di famiglie in tutto il mondo hanno potuto acquistare per la prima volta automobili e televisori, vestiti e condizionatori. Molti di questi beni di consumo vengono prodotti principalmente da fabbriche dalla manodopera a “basso costo” nei Paesi dell’Asia, che però ricorrono a risorse (materie prime) provenienti da altri Paesi. Poiché la produzione si è spostata da Europa, Nord America e Giappone a Cina, Vietnam e Indonesia, i prezzi di molti beni di consumo sono oggi più bassi di quanto non fossero all’inizio del secolo.

Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia la globalizzazione ha subito il terzo grande colpo in soli cinque anni. Nel 2018 la guerra commerciale dichiarata alla Cina dal presidente americano Donald Trump ha colpito non solo gli scambi internazionali tra due dei tre pesi massimi dell’economia mondiale, ma anche quelli con molti altri Paesi, tra cui gli alleati tradizionali degli Stati Uniti come l’Unione Europea, il terzo peso massimo. Nel 2020 la pandemia da Covid-19, le gravi interruzioni del trasporto marittimo (come il caso della nave Ever Given incagliata nel canale di Suez o le porta container ferme per la guerra in Ucraina), la rinascita dei nazionalismi populisti e le crescenti tensioni tra la Cina e tutti i suoi principali partner commerciali hanno portato gli esperti a proclamare la morte della globalizzazione. Effettivamente, gli anni difficili della pandemia, uniti alla crisi economica e alla possibile recessione in arrivo, stanno spingendo le diverse economie a rivalutare le loro priorità, portando a una diminuzione del tasso di globalizzazione. Nella classifica dei Paesi più globalizzati gli Stati Uniti ora sono al 24° posto, dietro alle maggiori potenze europee. Dal termine della Seconda Guerra Mondiale, il ruolo degli Stati Uniti è stato quello di guida verso una crescita comune, creando un’economia mondiale integrata tra i vari Paesi, fondata sulla penetrazione dei mercati e sui criteri di costo ed efficienza. Questo sistema si era già incrinato dopo la crisi globale del 2007-2009, poiché l’interesse dell’America a mantenerlo tale è diminuito. Per di più, l’abbandono da parte del Presidente Joe Biden delle regole del libero mercato per una politica industriale aggressiva ha sferrato un ulteriore colpo. Lo scorso luglio, infatti, Biden ha approvato la Chips Act, grazie a cui lo Stato fornisce un sostegno di 52 miliardi di dollari alle imprese americane produttrici di semiconduttori. E questa è solo l’ultima delle misure protezionistiche messe in atto dalle amministrazioni statunitensi. Così, mentre l’economia globale vive un periodo di forte crisi, dovuto anche all’aumento dei tassi di interesse, si assiste a un allentamento dell’integrazione globale. Anche in Europa, la guerra in Ucraina ha portato i diversi Paesi a ridurre le loro dipendenze, generando un rallentamento dei rapporti internazionali anche all’interno della stessa Unione Europea. Molti sono gli Stati che allo scoppio del conflitto hanno posto avanti gli interessi nazionali, facendo vacillare il mercato unico europeo. Un esempio è la Germania, con la decisione di impegnare 200 miliardi per aiutare le proprie imprese a superare la crisi energetica.

Quindi ora sappiamo che non bastano tanti McDonald’s e tante Ikea, e che si è rivelata sbagliata l’idea che la progressiva unificazione degli stili di vita e dei simboli culturali, unita alla travolgente forza dei commerci, avrebbe reso piatto e pacifico il mondo. La prima conseguenza di questa presa di coscienza riguarda l’efficienza delle catene del valore globale, nonché gli aumenti dei costi di produzione e la riduzione della competitività delle imprese. Così, ad esempio, il calo delle importazioni ha reso più difficile l’accesso ai componenti necessari per la produzione di un bene, aumentando i costi e riducendo la flessibilità dei produttori. Inoltre, la limitazione dei flussi di capitali ha reso più difficile per le aziende ottenere finanziamenti, riducendo la capacità di investire in nuove tecnologie.

All’opposto, la deglobalizzazione potrebbe anche portare a una diversificazione dei processi produttivi a livello nazionale, con una maggiore attenzione alla produzione locale e alla riduzione della dipendenza dalle importazioni. Inoltre, si potrebbe avere una particolare attenzione alla sostenibilità ambientale e sociale. C’è poi da considerare anche l’impatto sui consumatori, per i quali queste tendenze hanno portato a un aumento dei prezzi dei prodotti importati e a una riduzione dell’accessibilità ai prodotti di nicchia, mentre tra i vantaggi ci sono la riduzione dei rischi sanitari e ambientali legati alla catena di approvvigionamento globale.

Tuttavia gli economisti concordano nel ritenere che il futuro che ci aspetta non sarà meno globalizzato. Infatti, per cercare di definire traiettorie evolutive, bisogna partire da due punti indiscutibili. Esiste - e non è possibile tornare indietro - la trama connettiva globale della sfera informativa, anche se viene di tanto in tanto ipotizzata la temuta separazione di internet tra Usa e Cina. In realtà sono le componenti fisiche delle interconnessioni che sono e saranno modificate, nel senso che è probabile l’accentuazione del trend in atto verso la riacquisizione di un maggior controllo delle filiere per motivi essenzialmente geo-strategici e ambientali. L’effetto probabile è di un ri-orientamento strategico delle fasi di attività più propriamente fisiche. In pratica, le grandi imprese si stanno rendendo conto che è necessario avere varie sedi su cui contare, in differenti Stati. TSMC, una delle più importanti aziende al mondo nel settore dei semiconduttori, con sede a Taiwan, ha recentemente aperto una nuova “succursale” negli Stati Uniti e ne sta sviluppando un’altra in Giappone. Apple sta iniziando a de-centralizzare la sua produzione, portandola anche fuori dai confini cinesi, fino all’India. La diversificazione della catena di approvvigionamento avrà diversi effetti. Maggiori spese aziendali e di gestione, che siano di trasporto, di automazione o dovute all’aumento degli stipendi, costi più alti per i consumatori: oltre all’inflazione bisognerà considerare l’aumento delle spese dovute alla costruzione di nuovi impianti, che si trasferiranno almeno in parte sui prezzi finali. Infine, maggiore pressione sui margini operativi, dovuta a nuovi costi connessi con la costruzione di catene di approvvigionamento più flessibili.

Anche la variabile geopolitica ha un ruolo in questo nuovo sistema economico. All’interno dei Paesi si sono affermate nuove tendenze nazionalistiche, nella convinzione che, quando le Nazioni non riescono a concordare linee di azione comuni, la soluzione è che ognuno vada per conto suo, rispondendo in primo luogo alle istanze dei propri cittadini. Ci si è però resi conto rapidamente di come l’approccio nazionalistico non fosse in grado di gestire l’accumularsi di emergenze globali. Ecco allora la seconda direzione di sfogo delle tensioni politiche, che abbiamo sotto gli occhi in questo momento: Paesi che, avendo capito di non potercela fare da soli, cercano di selezionare le proprie alleanze in base ad affinità elettive di natura economica e politica. Di fronte ai limiti del nazionalismo, cercano cioè una “riglobalizzazione selettiva”: globalizzazione sì, ma solo tra amici fidati. L’idea sottostante è che un Paese possa garantirsi un futuro radioso solo se in pieno controllo della propria sicurezza nazionale anche sotto il profilo economico. In estrema sintesi, si può forse parlare di globalizzazione su nuove basi. A questo proposito si possono intravedere due possibili sbocchi a questi processi in corso. Il primo prevede lo sviluppo di una globalizzazione multipolare, in cui, di certo, Cina e Stati Uniti (e forse l’India) assumeranno un ruolo fondamentale e contemporaneamente anche altre realtà acquisiranno uno spazio importante. Il secondo sbocco possibile, che sembra la soluzione preferita dagli Stati Uniti, vede la formazione di due blocchi, uno occidentale a guida Usa (e che comprenda possibilmente il numero più elevato possibile di Paesi in via di sviluppo) e l’altro orientale a guida cinese con diversi Paesi asiatici, africani e dell’America Latina. Quale che sia lo scenario futuro, in ogni caso, va sottolineato che i rapporti economici tra i vari Paesi, e in particolare tra Cina e Occidente, sono oggi tanto interconnessi e intricati che una separazione netta tra le due aree appare sostanzialmente impossibile. Quindi anche se si formassero due blocchi, non sarebbero completamente chiusi su sé stessi, registrerebbero sempre interscambi molto importanti. Probabilmente, la sfida economica più difficile sarà quella di smorzare l’inflazione che si sta rapidamente diffondendo da un Paese all’altro, in un’economia mondiale che rimane molto strettamente interconnessa. A differenza dei primi anni del XXI secolo, tuttavia, le importazioni a basso costo non consentiranno più alle banche centrali di tenere sotto controllo l’inflazione in modo pressoché indolore per il pubblico. Le interruzioni della catena di approvvigionamento diminuiranno man mano che le famiglie sposteranno la spesa dai beni ai servizi; di conseguenza, la crescita del commercio di beni manifatturieri sarà più lenta rispetto a quella dell’economia mondiale. Ma, lontano dagli occhi del pubblico, la ricerca mondiale di talenti da parte delle aziende porterà la globalizzazione a imboccare una nuova direzione, sempre più basata su servizi e idee piuttosto che su beni tangibili.

 

“È che mai prima di oggi, nella storia dell’umanità, un numero così elevato di individui è stato  in grado di conoscere prodotti, idee e vite di tante altre persone.”

(Thomas L. Friedman, saggista statunitense)

Ultima modifica 04/05/2023